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Nonostante l'emergenza sanitaria sia iniziata già da tempo, sono ancora molti i dubbi che riguardano la diffusione del virus e come evitare il contagio. Come si trasmette davvero il coronavirus? Quanto rimane sugli oggetti e nell'aria? E serve davvero igienizzare, mani, oggetti e superfici? Cerchiamo di rispondere a queste e ad altre domande sul Covid19.
Nonostante si sappia di più sul virus rispetto a quando è iniziata l'emergenza, sono ancora tanti i dubbi che attanagliano le persone. Come si trasmette davvero? Quali sono i sintomi? Cosa posso fare per evitare il contagio? Quanto tempo rimane su oggetti e nell'aria? Proviamo a rispondere a queste e ad altre domande.
I coronavirus (CoV) sono una vasta famiglia di virus respiratori in grado di infettare l’uomo e alcune specie di animali (es. uccelli, cammelli). Possono causare diverse malattie principalmente a carico del tratto respiratorio superiore e del tratto gastrointestinale. Le infezioni da coronavirus sono varie e presentano gravità diverse: si va da quelle più comuni che interessano le vie aeree superiori, come il raffreddore, a sindromi respiratorie più gravi che interessano le vie respiratorie basse come la SARS (sindrome respiratoria acuta grave, Severe Acute Respiratory Syndrome) e la MERS (sindrome respiratoria mediorientale, Middle East Respiratory Syndrome).
Per quanto riguarda il nuovo coronavirus, denominato SARS-CoV-2, è un nuovo ceppo che non era mai stato identificato nell'uomo prima di Dicembre 2019, cioè prima che venissero segnalati i primi casi di polmonite dovuti a un nuovo patogeno sconosciuto nella città di Wuhan, in Cina.
Il sequenziamento del genoma del nuovo coronavirus ha rivelato che questo è un fratello del virus della SARS, con cui condivide per il 79,5% la sequenza genica ma è anche molto simile a un coronavirus che infetta i pipistrelli, con cui ha in comune il 96,2%, della sequenza genica, da qui l’ipotesi secondo cui il virus umano derivi da quello del pipistrello e che mediante delle mutazioni abbia fatto un salto di specie (o spill over). Ma si tratta ancora di ipotesi da confermare.
COVID-19 (CoronaVIrus Disease-19) è il nome dato alla malattia respiratoria causata dal nuovo coronavirus.
I sintomi della malattia variano sulla base della gravità della malattia. Si passa infatti dall'assenza di sintomi (nei cosidetti asintomatici) a sintomi simil-influenzali come malessere generale, febbre e tosse secca, che sono quelli più comuni. I sintomi possono comparire 2-14 giorni dopo l'esposizione al virus.
Le persone con COVID-19 possono avere anche mal di gola, mal di testa, naso che cola, dolori muscolari, perdita improvvisa dell’olfatto (anosmia) o diminuzione dell'olfatto (iposmia), perdita del gusto (ageusia) o alterazione del gusto (disgeusia), nausea, vomito e diarrea (soprattutto nei bambini).
Nei casi più gravi, l'infezione può causare polmonite, sindrome respiratoria acuta grave, sepsi e shock settico e persino la morte.
Le persone anziane di età superiore ai 70 anni e quelle con patologie preesistenti, come ipertensione arteriosa, problemi cardiaci, diabete, malattie respiratorie croniche, cancro e i pazienti immunodepressi hanno maggiori probabilità di sviluppare forme gravi di malattia.
Capire come, quando e in quali contesti SARS-CoV-2 si diffonde tra le persone è alla singola persona per evitare il contagio, ma nello stesso tempo è fondamentale per lo sviluppo di misure di salute pubblica che aiutino a prevenire le infezioni e a spezzare la catena di trasmissione.
Per trasmissione fecale, si intende il passaggio del virus presente nelle particelle fecali di una persona infetta a un'altra persona, attraverso la bocca (per es. attraverso contaminazione del cibo), attraverso fomiti (toccando superfici/ oggetti infetti e portando successivamente le mani alla bocca, al naso o agli occhi) o attraverso inalazione di goccioline/aerosol contaminate da feci.[1] Al momento abbiamo informazioni sparse in merito, sappiamo che l’RNA di SARS-CoV-2 è stato trovato nei campioni fecali di alcuni pazienti, su alcuni superfici nei bagni degli ospedali di pazienti affetti da COVID e che nei campioni fecali il virus persiste più a lungo rispetto ai campioni respiratori. Diversi studi, inoltre, indicano che alcuni pazienti COVID-19 (2-35%) hanno manifestato sintomi gastrointestinali, come fastidio addominale, diarrea, sanguinamento, nausea e vomito, sebbene questi sintomi siano meno frequenti di quelli respiratori. Tuttavia, il rilevamento dell’RNA virale nelle feci di per sè non è indice di contagio. Anche se sono presenti report che descrivono che il virus isolato dalle feci abbia mantenendo capacità infettive, questi dati per il momento sono ancora pochi per poter trarre conclusioni su questo forma d trasmissione. Bisogna infatti capire ancora in che percentuale il virus ritrovato nelle feci è infettivo, e con che frequenza si verifica l’infezione ad altre persone.
Rapporti sparsi di cluster in un edificio residenziale e in una fitta comunità urbana con scarsa igiene suggeriscono la possibilità di trasmissione attraverso l'aerosol del virus dal drenaggio delle acque reflue.
Le cause principali della trasmissione fecale includono la mancanza di servizi igienici adeguati o cattive pratiche igieniche. Sappiamo da diversi studi che SARS-CoV-2 può essere inattivato velocemente con disinfettanti comunemente usati, per questo ci viene consigliato la corretta disinfezione degli ambienti in cui viviamo e dei bagni.
E' possibile ridurre il rischio di contagio e di trasmissione agli altri di questa malattia usando una serie di accorgimenti, validi anche per le altre malattie respiratorie (raffreddore, influenza).
Il periodo di incubazione per questo nuovo coronavirus, ossia il tempo che intercorre tra l’ingresso del virus nell’uomo e la comparsa del primo sintomo della malattia, può variare da da 2 a 14 giorni. Da un’analisi degli studi oggi disponibili, l’OMS ha stimato che la maggioranza delle persone manifesta i sintomi tra il 5 e 6 giorno dopo l’infezione.
Studi indicano che questo coronavirus è contagioso già nel periodo di incubazione, pertanto una persona infetta ma apparentemente sana può trasmettere il virus agli altri.
Diversi studi indicano che sia le persone con sintomi che quelle asintomatiche sono in grado di trasmettere il virus ad altre persone. Tuttavia non è ancora chiaro in che misura gli asintomatici contribuiscano al contagio, in quanto gran parte di loro non sa di avere il virus e quindi sfugge all’osservazione (per maggiori informazioni su questo argomento vedi anche: E’ possibile prendere il virus da chi non ha sintomi?). Per quanto riguarda invece le persone sintomatiche, sembra che la trasmissione del virus inizi qualche giorno prima di manifestare i sintomi. Secondo uno studio condotto all’Università di Oxford nelle persone con sintomi il periodo in cui si è più contagiosi va da 2-3 giorni prima dei sintomi a 2-3 giorni dopo.
Secondo quanto indicato dal CDC americano (organismo di controllo e prevenzione delle malattie) sulla base dei dati attualmente disponibili, il periodo di contagiosità varia con la severità della malattia. Le persone con COVID-19 lieve - moderato rimarrebbero infettive per non più di 10 giorni dopo l'insorgenza dei sintomi, mentre quelle con forme più gravi o gli immunocompromessi lo sarebbero probabilmente per un periodo più lungo, che però non va oltre i 20 giorni dopo l'esordio dei sintomi.
Può succedere che alcune persone clinicamente guarite continuino a rilasciare il materiale genetico virale, rilevabile nelle secrezioni delle vie respiratorie fino a 3 mesi dopo l'insorgenza della malattia, anche se a concentrazioni decisamente inferiori rispetto a quelle dell’esordio della malattia. Tuttavia, non si tratta di virus interi capaci di infettare ma piuttosto di RNA virale inattivo.
Nel corso della pandemia sono stati documentati diversi eventi di “super-diffusione”, caratterizzati da numerosi contagi simultanei avvenuti ad opera di una persona infetta in contesti particolari. Eventi di super-diffusione si sono verificati nei cori, negli ospedali, in chiesa, nei ristoranti, in situazioni circoscritte nello spazio e nel tempo.
Lo studio di questi eventi ha permesso di aggiungere nuove informazioni sulle dinamiche dell’infezione da SARS-COV-2, che difficilmente si riuscirebbero a ricavare dallo studio dei contagi in ambiente domestico, in quanto capire se a casa ci si è contagiati tramite le goccioline più grandi (droplet), attraverso aerosol o contatto indiretto con le superfici contaminate, è praticamente impossibile viste le abitudini che adottiamo quando stiamo in casa. L’analisi, invece, del contagio in alcune situazioni della comunità caratterizzate da una certa varietà nella natura dei contatti permette di capire quali sono i comportamenti e i posti che facilitano il contagio.
Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Science, l’infezione da SARS-COV-2 avverrebbe per cluster o grappoli, generati da una persona super-contagiosa, detto super-diffusore o super-spreader, in grado di infettare una decina di persone connesse tra loro nello spazio e nel tempo, come acini di un grappolo di uva appunto. In alcuni casi i cluster si spengono da soli, dando luogo a eventi più circoscritti, in altri casi invece i cluster coinvolgono altri super-diffusori e generano dei grandi focolai. Quando più infezioni di questo tipo si verificano in rapida successione tra persone a stretto contatto, il contagio assume una distribuzione tale da sembrare uniforme all’interno della popolazione. In realtà non sembra essere così. Secondo alcuni studi, il 10-20% delle persone infette causerebbe l’80-90% delle infezioni di COVID-19, mentre la maggior parte delle persone infette non contagerebbe nessuno.
Inizialmente si cercava di identificare le caratteristiche biologiche di questi “super-diffusori”, per capire cosa avevano di diverso dagli altri. È stato ipotizzato per esempio che si trattasse di persone con una carica virale particolarmente alta, o con un tono di voce particolarmente alto, anche sulla base di studi che sostengono che l'emissione di aerosol durante il parlato sarebbe correlato all'intensità vocale e che alcune persone rilascerebbero più goccioline di saliva potenzialmente infette di altri. In realtà oggi sappiamo che questo è parzialmente vero. Nel senso che, sembra essere la sinergia di più fattori che crea una situazione particolare da cui parte un evento di super-diffusione, in cui concorrono tanto le caratteristiche della persona da cui parte il contagio, il “super-diffusore” appunto, quanto l’ambiente, il tipo di attività che si svolge al suo interno o i comportamenti adottati. Per capire, un asintomatico o pre-sintomatico apparentemente sano ma che presenta nelle secrezioni respiratorie una grande quantità di virus attivo e in grado di infettare (alta carica virale), che sta a lungo in un posto affollato, magari al chiuso e senza un adeguato ricambio di aria, dove parla ad alta voce o canta o fa attività fisica (situazioni che facilitano l’aerosolizzazione del virus) e nelle vicinanze si trovano persone che non indossano, o che indossano male la mascherina, può dare origine a un cluster, cioè a un singolo episodio di grande trasmissione del virus. Trattandosi di una coincidenza di fattori, questi eventi non si verificano frequentemente.
Nel corso dell’epidemia abbiamo sempre sentito parlare del fattore R, che indica il numero medio di persone che una persona infetta è in grado di contagiare. Il problema è che il SARS-COV-2 non è trasmesso dalle persone allo stesso modo, per una serie di fattori che vanno dalla carica virale alle abitudini delle persone (per esempio una persona che vive in campagna ha meno occasioni per contagiare gli altri rispetto a una persona che vive in città), pertanto sapere che una persona con COVID è in grado di contagiare mediamente due persone, non ci dice come davvero la diffusione avvenga nella pratica. Vi è un altro fattore, il fattore K o fattore di dispersione, meno noto ma molto utile per capire le dinamiche della pandemia di COVID-19 e per indirizzare le misure necessaire a limitare le circostanze che favoriscono la super-diffusione. K indica quanto un virus si trasmette in maniera omogenea. Più k è grande, es. l’influenza stagionale, più il contagio si trasmette in modo uniforme nella popolazione. La COVID-19 invece ha un basso fattore di dispersione, indice che il contagio si diffonde a partire da pochi individui che infettano gruppi numerosi di persone, dando origine a un cluster.
Queste informazioni oltre a spiegare la diffusione a macchie del coronavirus (indice del fatto che la diffusione del virus non è uniforme) chiarirebbero anche l’alternanza tra la fase di calma apparente e quella di esplosione dei casi a cui abbiamo assistito e continuiamo ad assistere nel corso della pandemia, in quanto bastano pochi eventi di super-diffusione in simultanea (pensiamo per esempio ’incontro di Champions League tra l’Atalanta e il Valencia, apertura delle discoteche in Sardegna) ad amplificare la trasmissione e fare impennare la curva epidemica.
Pertanto, è fondamentale prevenire gli eventi di super-diffusione mediante l’adozione di misure anti-assembramento nei luoghi considerati a rischio e l’aerazione degli ambienti.
Il rischio di super-diffusione aumenta in tutti quei luoghi al chiuso poco aerati, rumorosi e affollati, dove si resta a lungo a contatto più o meno ravvicinato con altre persone (es. impianti di lavorazione della carne), ci si abbassa la mascherina per mangiare o bere e si alza la voce per parlarsi (ristoranti e bar) o dove ci si allena (palestra), si prega (moschee o chiese), si canta (concerti). Tutte situazioni in cui sia la falsa rassicurazione derivante dalla mancanza di sintomi (tipica degli asintomatici o pre-sintomatici) sia l’aerosol (in grado di contagiare anche a distanza e per più tempo) giocano un ruolo rilevante.
Sebbene i dati rilevano che si ammalino di COVID-19 meno rispetto agli adulti, i bambini possono essere infettati dal virus, possono ammalarsi e possono diffondere il virus che causa la COVID-19.
La maggior parte dei bambini con COVID-19 ha sintomi lievi o non ha affatto sintomi e ha un rischio molto inferiore rispetto agli adulti di sviluppare forme gravi di malattia. Proprio a causa dei sintomi assenti o lievi è probabile che una buona percentuale di bambini non venga sottoposta a test, pertanto l’infezione nella popolazione pediatrica potrebbe essere sottostimata.
Secondo uno studio multicentrico pediatrico condotto dalla Società Italiana di Pediatria (Sip) e dalla Società Italiana di Infettivologia Pediatrica (Sitip) su oltre 50 dei principali Centri Clinici infettivologici italiani che ha coinvolto circa 750 bambini, la febbre è il sintomo d’esordio più frequente (81,9% dei casi) dell’infezione da Sars-CoV-2 nel bambino, seguita da tosse (38%) e rinite (20,8%). Al quarto posto c’è la diarrea (16%).
Tuttavia, l’infezione in alcuni casi può comportare lo sviluppo di complicanze o forme cliniche peculiari, come la sindrome infiammatoria multisistemica (MIS-C), una malattia rara che causa infiammazione in diverse parti del corpo (cuore, polmoni, reni…) e con sintomi simili alla malattia di Kawasaki, a cui inizialmente era stata assimilata: febbre, dolore addominale, eruzione cutanea, congiuntivite, pericardite... Si tratta di una malattia grave, persino mortale, ma che nella maggior parte dei bambini a cui è stata diagnosticata è migliorata con le cure mediche. Secondo quanto riportato dal CDC americano (organismo di controllo e prevenzione delle malattie), sebbene si è visto che molti bambini con MIS-C erano positivi al nuovo coronavirus o avevano avuto rapporti stretti con persone affette da COVID-19, non si sa ancora cosa causa questa sindrome né chi è più a rischio di svilupparla.
Ecco perché va comunque posta molta attenzione quando i bambini manifestano i sintomi dell'infezione, soprattutto se con meno di un anno di età e in presenza di condizioni patologiche preesistenti.
Non è ancora chiaro il ruolo che i bambini svolgono nella trasmissione del SARS-CoV-2. La diffusione dell'RNA virale attraverso il tratto respiratorio superiore sembra avere una durata inferiore rispetto agli adulti. Tuttavia, i bambini mostrano una diffusione virale prolungata per via gastrointestinale, come suggerito dal rilevamento di tamponi fecali positivi anche dopo che i tamponi naso-faringei si erano negativizzati.
Alcuni studi che hanno analizzato la carica virale, cioè la quantità di virus attivo, presenti negli essudati respiratori dei bambini, suggeriscono che i bambini di età inferiore a cinque anni e con sintomi COVID-19 da lievi a moderati hanno una maggiore carica virale rispetto ai bambini più grandi e agli adulti. Mentre non sembra esserci una differenza significativa di carica virale tra bambini sintomatici più grandi e gli adulti sintomatici. Questi risultati suggeriscono che i bambini sono in grado di diffondere il virus, tuttavia non si sa ancora in che misura contribuiscono al contagio.
Si discute tanto sul ruolo delle scuole nella trasmissione del virus. Sebbene ci sono studi che mostrano che la prolungata chiusura delle scuole e il distanziamento sociale sembrano in grado di contrastare efficacemente la trasmissione dell’infezione, esiste un consenso generale sul fatto che la decisione di chiudere le scuole per controllare la pandemia COVID-19 debba essere utilizzata come ultima risorsa, in quanto l'impatto negativo sulla salute fisica, mentale e sull'istruzione dei bambini derivanti dalla chiusura, nonché l'impatto economico sulla società in senso più ampio, probabilmente supererebbe i benefici.
Inoltre, secondo l’analisi fatta dal CDC europeo, la chiusura delle scuole sebbene possa contribuire a una riduzione della trasmissione di SARS-CoV-2, di per sé non è sufficiente a prevenire la trasmissione comunitaria di COVID-19 in assenza di altri interventi non farmacologici, come le restrizioni agli assembramenti, uso delle mascherine, lavaggio delle mani ecc.
Il ritorno a scuola dei bambini tra agosto e settembre 2020 ha coinciso con un generale allentamento di altre misure restrittive in molti paesi e non sembra essere stato una forza trainante nell'aumento dei casi osservato in molti Stati membri dell'UE a partire dall'ottobre 2020. I tassi di notifica dei casi osservati dall'agosto 2020 per i bambini di età compresa tra 16 e 18 anni assomigliano maggiormente a quelli degli adulti di età compresa tra 19 e 39 anni.
La trasmissione di SARS-CoV-2 può avvenire all'interno delle strutture scolastiche e sono stati segnalati focolai nelle scuole materne, primarie e secondarie, tuttavia l'incidenza del COVID-19 negli ambienti scolastici sembra essere influenzata dai livelli di trasmissione nella comunità. Laddove ci sono state delle indagini epidemiologici, la trasmissione nelle scuole ha rappresentato una minoranza di tutti i casi di COVID-19 in ciascun paese. Il personale educativo e altro personale che circola all'interno dell'ambiente scolastico non è generalmente considerati a maggior rischio di infezione rispetto ad altre occupazioni.
L’applicazione delle misure di prevenzione, un adeguata ventilazione degli ambienti, distanziamento fisico, classi poco affollate, lavaggio regolare delle mani e degli ambienti, e l’uso di mascherine (laddove possibile) sono essenziali per prevenire la trasmissione del virus nella scuola.
A queste misure va aggiunta anche il contributo dei genitori che da parte loro dovrebbero tenere i figli lontani dalla scuola qualora presentino sintomi riconducibili alla COVID o in caso di una persona positiva al SARS-COV-2 in casa.
Diversi studi suggeriscono che anche le persone contagiate da SARS-CoV-2 ma che non presentano sintomi, noti come asintomatici, possono trasmettere il virus. Tuttavia, è ancora in discussione nella comunità scientifica quale sia il loro ruolo nella diffusione del virus.
Purtroppo, oggi non si sa ancora con precisione quanti siano gli asintomatici. La difficoltà sta nel fatto che la maggior parte degli asintomatici scopre di aver contratto l’infezione, a seguito di un tampone effettuato per caso o di un contatto con una persona positiva al SARS-COV-2, di conseguenza molti sfuggono all’osservazione visto che generalmente sono le persone con sintomi a ricorrere ai tamponi. Inoltre, manca una chiara distinzione tra asintomatici e pre-sintomatici, coloro che manifestano i sintomi in forma lieve prima di sviluppare i sintomi veri e propri. All’inizio della pandemia, gli studi suggerivano che gli asintomatici rappresentassero una fetta molto grande delle persone infettate da SARS-COV-2, circa l’80%. E’ probabile che gli studi che valutavano l’assenza di sintomi nelle persone in un solo momento, per esempio al momento del tampone, in realtà abbiano sovrastimato così la percentuale dei veri asintomatici, includendo tra questi anche coloro che avrebbero sviluppato i sintomi del COVID-19 in un secondo momento.
Recentemente, una meta-analisi che ha coinvolto più di 21,000 persone ha ridimensionato la percentuale degli asintomatici a circa il 17%. L’analisi comprendeva 13 studi in cui i partecipanti erano seguiti per un periodo di almeno 7 giorni, e ha concluso che la maggior parte delle persone manifestava i sintomi del COVID in 7-13 giorni.
Per quanto riguarda invece il rischio di trasmettere il virus ad altre persone sembra che gli asintomatici siano meno contagiosi delle persone sintomatiche, probabilmente per via della mancanza di quei meccanismi come tosse e starnuti che facilitano la diffusione del virus, ma non solo. Secondo un ampio studio condotto da alcuni ricercatori a Ginevra, che hanno analizzato la diffusione del virus tra conviventi, il rischio di diffondere il virus legato agli asintomatici sarebbe di circa un quarto rispetto a quello legato a una persona sintomatica. Se si guarda alla carica virale, cioè alla quantità di virus presente negli essudati respiratori, sembra essere alta come quella delle persone con sintomi, tuttavia sembra che gli asintomatici rilascino il virus per meno tempo rispetto ai sintomatici, pertanto potrebbero essere contagiosi per un periodo più corto.
Nonostante questa apparente minore contagiosità, gli asintomatici rappresentano comunque un problema serio nella gestione di questa pandemia, in quanto la loro mancata identificazione derivante dall’assenza di sintomi non permette di isolarle dal resto della comunità e permette al virus di diffondersi tra le persone.
Sebbene sia raro re-infettarsi con SARS-COV-2, ossia ammalarsi di COVID una seconda volta, casi di re-infezione sono stati documentati. Non è ancora chiaro se la re-infezione sia dovuta a un'immunità protettiva non durevole o a ceppi diversi dello stesso virus.
Sappiamo che quando un individuo guarisce da una certa infezione sviluppa delle cellule, note come linfociti, che gli permettono di riconoscere il patogeno durante un secondo attacco, e di neutralizzarlo. I linfociti hanno bisogno di tempo per imparare a identificare la minaccia, ma una volta addestrati possono schierarsi rapidamente e cercare di contrastarlo in maniera efficiente.
Purtroppo, se pensiamo al virus dell’influenza o ad altri coronavirus stagionali, sappiamo che la tendenza di questi virus a mutare permette loro di eludere il nostro sistema immunitario, pertanto le difese che l’organismo ha elaborato a seguito di precedenti esposizioni al virus vengono messe in difficoltà e non riescono a contrastarlo in maniera pronta ed efficiente.
Per quanto riguarda il SARS-COV-2, essendo un virus relativamente nuovo, ci sono ancora molte incognite sulla immunità generata da una precedente infezione del virus. Sappiamo che a seguito dell’infezione da SARS-COV-2 la maggior parte dei pazienti sviluppa in 2-3 settimane anticorpi specifici in grado di neutralizzare il virus, tuttavia non è chiaro quanto dura l’effetto protettivo nè se tutti i pazienti sviluppano una risposta immunitaria protettiva. Diversi studi suggeriscono che il livello di anticorpi diminuisce nel tempo ma che la protezione viene mantenuta per sei-otto mesi. Sembrerebbe inoltre, che l'entità della risposta immunitaria sia associata alla gravità della malattia, e che i pazienti affetti da sintomi lievi non abbiano abbastanza anticorpi in grado di neutralizzare il virus in un secondo attacco.
Nel complesso, il rischio di reinfezione a breve termine da SARS-COV-2 (entro i primi mesi dopo l'infezione iniziale) sembra essere basso, e lo dimostra il numero esiguo di casi documentati lo scorso anno. Inoltre, nella maggior parte dei casi la seconda infezione era caratterizzata da sintomi più lievi. La diagnosi di re-infezione, non è banale e dal momento che alcune persone hanno un rilascio prolungato dell'RNA virale nelle secrezioni respiratorie (VEDI SEZIONE Per quanto tempo si è contagiosi?) non dovrebbe basarsi sul solo tampone molecolare ma anche sul sequenziamento del genoma virale, che permette di capire se realmente ci sono state due infezioni.
Abbiamo bisogno di maggiori informazioni per capire chi sono le persone che presentano un rischio maggiore di re-infezioni e qual è l’effetto delle varianti emerse di recente, sebbene secondo alcuni esperti ci sono molte ragioni per sospettare che la protezione esistente, seppure in maniera meno efficiente, possa coprire anche le nuove varianti.
Sin dall’inizio di questa pandemia si è parlato molto del rischio di contagio attraverso fomiti (superfici o oggetti inanimati). L’argomento è entrato al centro del dibattito scientifico, e non solo, dopo che uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine, aveva rilevato che il SARS-COV-2 era in grado di sopravvivere, in condizioni sperimentali e quindi a temperatura e pressione controllate, per diverse ore fuori dal corpo umano su alcune superfici con cui entriamo in contatto quotidianamente, nello specifico il virus poteva resistere sulle plastiche e l’acciaio inossidabile fino a 72 ore, anche se la carica infettiva sui suddetti materiali si dimezzava dopo circa 6 ore e 7 ore, rispettivamente. Le superfici sulle quali si aveva una minore persistenza erano il rame e il cartone, dove è stato osservato un abbattimento completo dell’infettività dopo 4 ore per il rame e 24 ore per il cartone.
Un altro studio pubblicato sul lancet Microbe che aveva analizzato la capacità del virus di sopravvivere sulle superfici a diverse temperature e ph, concludeva che il SARS-COV-2 era sensibile alle alte temperature, non alle variazioni di pH e che i disinfettanti erano in grado di inattivarlo velocemente.
I risultati preliminari di questi studi non ancora sottoposti alla peer review, la revisione da parte dei pari, sono stati diffusi dai media internazionali, con titoli sorprendenti che hanno contribuito ad aumentare il panico tra le persone, e con una serie di consigli su come decontaminare qualsiasi cosa, dalle maniglie delle porte alle scarpe prime di entrare in casa, su come fare la spesa, disinfettare i soldi ecc.
Sebbene si tratti di risultati importanti che hanno permesso agli esperti di raccogliere nuove informazioni su questo virus, studi di questo tipo tuttavia devono essere interpretati con cautela e non portare a conclusioni in quanto si riferiscono a esperimenti di laboratorio, dove alcuni parametri come temperatura e umidità sono controllate, e pertanto potrebbero non trovare riscontro nella realtà, dove invece i fattori ambientali sono molto più variabili. Ricordiamo che la vitalità di un virus è condizionata da vari fattori ambientali come temperatura, umidità e flussi d'aria, radiazioni ultraviolette, agenti chimici, presenza di altri microrganismi.
La contaminazione delle superfici da parte del SARS-COV-2 è stata documentata anche fuori dal laboratorio da studi che hanno rilevato tracce di materiale genetico in campioni raccolti da letti, mobili, maniglie, pulsantiere degli ascensori negli ospedali ma anche fuori dal contesto ospedaliero, in locali pubblici. Alcuni di questi studi evidenziavano anche che dopo la pulizia degli ambienti, il virus non era più rilevabile, sottolineando l’importanza che può avere la corretta igienizzazione degli ambienti nel ridurre il rischio di contagio. Tuttavia, va detto ancora una volta che la rilevazione del materiale genetico non implica di per se che si tratti di virus attivo, e quindi in grado di infettare, potrebbe trattarsi di RNA virale inattivo, derivante probabilmente dal disfacimento di cellule dalle quali il virus era stato fagocitato o che erano state infettate.
In conclusione, se da una parte non abbiamo prove per poter escludere che questa forma di contagio avvenga nella realtà, non a caso le linee guida raccomandate dall’OMS e dalle autorità sanitarie continuano a raccomandare la sanificazione di superfici e ambienti condivisi, come uffici, negozi, mezzi di trasporto, d’altra parte si può pensare, come sostiene anche un lavoro pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet Infectious disease, che il rischio di infettarsi in questo modo sia molto basso.
Per capire il perché, basti pensare a come avverrebbe un contagio di questo tipo: è necessario che una persona che ha contratto l’infezione trasferisca goccioline di saliva contenente il virus su una superficie o oggetto, e che un'altra persona tocchi, in tempi brevi, quella superficie e si porti velocemente la mano alla bocca, naso o occhi. Il fattore tempo è molto importante, perché più passa il tempo più aumenta la probabilità che i virus venga inattivato in quanto esposto a raggi UV, correnti d’aria ecc. Inoltre se dopo essersi contaminato la mano, la persona tocca altre superfici o oggetti, prima di portarsi la mano alle mucose, è probabile che la quantità di virus presente nelle goccioline si riduca pertanto potrebbe non essere sufficiente per infettare una persona. Oggi non sappiamo ancora con precisione la quantità di virus in grado di infettare una persona nè quanto facilmente il virus venga trasferito da una superficie a noi. Non si può escludere che questo avvenga soprattutto in determinati contesti (ambiente ospedaliero e domestico) ma si tratta sicuramente di una forma di contagio secondaria a quella aerea. Secondo uno studio eseguito a Medford, in Massachusetts, che ha stimato il rischio di infezione derivante dal contatto con una superficie contaminata sulla base della quantità di materiale genetico rilevato nei tamponi prelevati da alcune superfici e della frequenza con cui vengono toccate le varie superfici, il rischio sembra essere inferiore a 5 su 10.000. In attesa di nuove evidenze, per ora prevale il principio di precauzione, con il consiglio di usare il buon senso nel non sottovalutare mai i rischi e seguire le buone pratiche d’igiene.
Con il passare dei mesi abbiamo sentito dare sempre più importanza al rischio di trasmissione del virus attraverso l’aerosol, che all’inizio della pandemia era un po’ sottovalutato dalla stessa Organizzazione mondiale della sanità (OMS) e dalle autorità sanitarie o comunque limitato ad alcune circostanze ospedaliere. Fino a quando a luglio del 2020 un gruppo di 239 scienziati sulla base degli studi emergenti ha deciso di scrivere una lettera all’OMS per chiedere di rivedere la sua posizione sul rischio derivante dalla diffusione del SARS-COV-2 per aerosol. Prima di parlare del rischio vediamo cosa vuol dire che un virus si aerosolizza e che implicazioni può avere nella vita di tutti i giorni.
Il virus SARS-COV-2 si trasmette principalmente per inalazione di goccioline di saliva diffuse da una persona infetta quando respira, parla, ride, tossisce o starnutisce.
Le goccioline di saliva di dimensioni più grandi (chiamate anche “droplet”) non rimangono molto nell’aria e tendono a cadere a terra o sulle superfici vicine abbastanza velocemente. Quelle più piccole, che si disperdono come “aerosol”, si depositano più lentamente, rimanendo sospese nell'aria per più tempo, e possono anche percorrere tragitti più lunghi.
Man mano che si allontano dalla bocca o dal naso la concentrazione delle goccioline diminuisce, per effetto dell’enorme volume di aria che incontrano, fino a diventare goccioline piccole o particelle.
La maggior parte degli esperti ha sempre sostenuto che l’infezione si contrae principalmente per contatto stretto e prolungato con una persona infetta, attribuendo alle droplet il ruolo predominante nel contagio. Per questo motivo ci è sempre stato raccomandato di tenere una distanza di almeno 1 metro dalle altre persone.
Il termine aerosol viene utilizzato in differenti contesti per descrivere goccioline respiratorie molto piccole, oppure una nuvola di goccioline piccole presente nell'aria, in ambito sanitari per definire le goccioline piccoline e particelle che si generano a seguito di alcune procedure (ad es. Intubazione, broncoscopia). Il termine aerosol è inoltre usato per descrivere la nuvola di goccioline piccoline e particelle generate dal sistema fognario (nota nella diffusione del virus SARS-CoV-1 nel 2003).
La maggior parte degli esperti di malattie infettive e di salute pubblica riservano il termine trasmissione airborne, attraverso aerosol per descrivere, le infezioni che possono essere trasmesse attraverso l'esposizione a goccioline piccole e particelle sospese nell'aria in grado di percorrere lunghe distanze e che persistono nell'aria per più tempo.
Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Journal of American Medical Association (JAMA) la temperatura e umidità presenti nella bocca creerebbero una nuvola di gas che durante uno starnuto o tosse verrebbe espulsa fuori come grappoli di goccioline di varie dimensioni. Il calore e l’umidità presenti nella nuvola preserverebbero le goccioline dall’evaporazione (che si avrebbe nell’ambiente esterno) permettendo loro di sopravvivere più a lungo e di compiere tragitti più lunghi, fino a 7-8 metri.
Alcuni esperimenti in laboratorio, tra cui quello pubblicato sul New England Journal of Medicine analizzato al punto "È possibile essere contagiati dal virus toccando superfici e oggetti contaminati?” descrivono la capacità di SARS-Cov-2 di rimanere vitale nell’aerosol per ore.
Tuttavia trattandosi di un esperimento in cui il virus è stato aerosolizzato attraverso un nebulizzatore e mantenuto in condizioni controllate di temperatura e umidità, non si possono trarre conclusioni su quanto accade nella realtà: gli aerosol generati in laboratorio non sono uguali a quelli generati dall’uomo e le condizioni sperimentali non sono paragonabili a quello che succede nella realtà, dove la molteplicità e la variabilità dei fattori ambientali potrebbero condizionare la vitalità del virus.
Il rischio di contagio attraverso aerosol aumenta nei luoghi piccoli, al chiuso, poco areati, affollati, e con lo sforzo espiratorio (canto, esercizio fisico, urla…).
In letteratura sono documentati diversi casi di persone contagiate da persone infettate distanti da loro (es. al ristorante, in luoghi di culto, durante una crociera) o che erano stati in un posto prima di loro. Sebbene appaiono eventi rari di trasmissione, mettono in rilievo il ruolo dell’aerosol nella trasmissione di SARS-COV-2 in luoghi chiusi, affollati e poco areati.
A Ottobre del 2020 il CDC americano (organismo di controllo e prevenzione delle malattie), ha rivisto la sua posizione sul rischio di infezione aerea sulla base delle prove emergenti sostenendo che l'epidemiologia di SARS-CoV-2 suggerisce che la maggior parte delle infezioni causate da questo virus si verifica a seguito del contatto stretto e non attraverso la trasmissione aerea. Se cosi non fosse infatti avremmo dovuto avere molte più infezioni nella fase iniziale della pandemia ma gli studi epidemiologici che hanno analizzato attraverso i test sierologici la percentuale della popolazione che presentava gli anticorpi al virus, quindi che aveva contratto l’infezione, rivelano che meno del 10% della popolazione è stata infettata dal SARS-COV-2; inoltre avremmo molte più infezioni in tempi brevi.
Tuttavia, la trasmissione aerea di SARS-CoV-2 può avvenire in circostanze particolari, anche al di fuori del contesto ospedaliero.
Le circostanze che ci espongono a maggior rischio di contagio aereo sono:
Questo perché, per essere infettata dal virus, una persona deve inalare una certa quantità di virus attivo, detta dose infettiva, che può essere diversa da persona a persona a seconda della sua suscettibilità al virus. La distanza dalla persona infetta, il tempo di esposizione, la potenza con cui le goccioline infette di saliva vengono espulse (che aumenta in caso di starnuti, tosse, canto, esercizio fisico…), l’uso delle mascherine, l’areazione dei locali al chiuso (che permette di diluire la carica virale sospesa nell’aria) sono tutti fattori che incidono sulla quantità di virus che viene inalata da una persona, pertanto condizionano la sua probabilità di infettarsi. Per ridurre il rischio di contagio attraverso aerosol è raccomandato di rimanere per poco tempo in ambienti chiusi e frequentati da più persone, di aerare bene i locali di indossare mascherine più protettive (es. FFP2, FFP3 o doppia mascherina).
Restano però da chiarire con che frequenza l’aerosol contribuisce al contagio di questo virus, quali sono le condizioni che facilitano la trasmissione attraverso aerosol e se incide sulla severità della malattia.
Il rischio teorico di ammalarsi di COVID-19 a causa del consumo o della manipolazione di alimenti (inclusi cibi e prodotti surgelati) e confezioni di alimenti contaminati da goccioline respiratorie di una persona infettiva, esiste ma nella pratica è considerato molto basso. Non sono descritti in letteratura casi di contagio avvenuti attraverso consumo o manipolazione di cibo. A scopo precauzionale viene consigliato di lavarsi/disinfettarsi bene le mani dopo aver fatto shopping o aver toccato confezioni di alimenti, e prima di preparare o consumare del cibo.
Per quanto riguarda invece il rischio di contrarre il virus da animali infetti oggi non ci sono prove che gli animali svolgano un ruolo significativo nella diffusione del SARS-CoV-2. Sappiamo che i coronavirus sono una grande famiglia di virus, in grado di infettare le persone ma anche alcuni tipi di animali, come bovini, cammelli e pipistrelli.
Alcuni coronavirus, come i coronavirus canini e felini, infettano solo animali e non infettano le persone. Altri coronavirus che infettano gli animali possono essere diffusi alle persone e quindi diffondersi tra le persone, come è successo con SARS-CoV-2, che probabilmente ha avuto origine nei pipistrelli.
È documentato in letteratura il rischio per gli animali domestici di contrarre l’infezione da persone affette da COVID. Sono stati infatti segnalati casi di cani e gatti contagiati dai loro proprietari. Tuttavia, le prove attualmente disponibili indicano che è improbabile che gli animali domestici abbiano un ruolo nella diffusione di questo virus all’uomo. Inoltre, sono stati segnalati focolai di SARS-COV-2 in diversi allevamenti di visoni in Europa (Paesi Bassi, Danimarca, Spagna) ma anche negli Stati Uniti, nonché tra i lavoratori delle fattorie colpite, tuttavia non è chiaro se questi ultimi siano stati infettati dai visoni o viceversa.
Altri animali da allevamento (come polli e anatre) non sembrano essere infettati o diffondere il SARS-CoV-2.
Come precauzione generale, è sempre opportuno osservare i principi di base dell'igiene come il lavaggio frequente delle mani a seguito del contatto con gli animali.
Le raccomandazioni sull’uso delle mascherine hanno subito dei cambiamenti nel corso della pandemia. Inizialmente, infatti, solo al personale sanitario e alle persone affette da COVID o che presentavano sintomi di infezione respiratoria era raccomandato di indossare la mascherina, oggi invece tutti la indossiamo quando usciamo di casa. Il motivo è semplice, trattandosi di un virus nuovo gli esperti sapevano poco su come si trasmetteva nella popolazione. Inoltre, mancavano prove solide sull’efficacia di questi dispositivi nel ridurre la diffusione del virus a supporto del loro uso comunitario. Pertanto, molte raccomandazioni iniziali, comprese quelle sull’uso delle mascherine, erano basate sulle conoscenze di altri virus respiratori, come il SARS-COV-1. La scoperta sulla capacità degli asintomatici di diffondere il virus ha fatto un po’ da spartiacque: in un contesto di elevata circolazione del virus in cui tutti possono essere dei potenziali “untori” si è deciso che l’uso della mascherina dovesse essere raccomandato a tutti. Oggi, diversi studi mostrano che l’uso delle mascherine permette di ridurre la diffusione del virus nella popolazione. Principalmente perché la mascherina permette di ridurre l'emissione di goccioline di saliva cariche di virus, anche da parte di quelle persone asintomatiche o pre-sintomatiche che, sentendosi bene, potrebbero non essere consapevoli della loro contagiosità per gli altri. Ma anche perché, le mascherine permettono di ridurre l'inalazione di queste goccioline da parte di chi le indossa. Il beneficio per la singola persona aumenta se più persone utilizzano le mascherine e se le indossano in maniera corretta (dovrebbero aderire perfettamente al volto senza lasciare spazi vuoti e coprire completamente il naso e la bocca). Tuttavia, va sempre considerato che la mascherina da sola non è in grado di proteggerci dal virus, e non va considerata un sostituto del distanziamento fisico. Pertanto, anche se si indossa la mascherina bisogna continuare a seguire le altre regole di prevenzione: tenera la giusta distanza dagli altri, lavarsi bene le mani e ventilare adeguatamente gli ambienti chiusi. Esistono diversi tipi di mascherine, da quelle di comunità (in stoffa e pertanto riciclabili), a quelle chirurgiche (certificate come dispositivi medici) fino ai dispositivi di protezione individuale (es. FFP2, FFP3), differenti tra loro per composizione e uso a cui sono destinate. Tutte, se indossate correttamente, permettono di trattenere le particelle virali, la scelta si basa essenzialmente sul contesto in cui le si usa e sul confort personale. La necessità di indossare una mascherina più protettiva è maggiore negli spazi chiusi e affollati, poco aerati, e in cui si permane per un tempo prolungato. Per maggiori informazioni su:
Si sta registrando una corsa all'acquisto di gel igienizzanti e prodotti per igienizzare casa. I prezzi di alcuni noti prodotti stanno avendo incrementi inaccettabili in queste ore, spesso al di là della loro reale utilità in questa situazione. Ma sono davvero indispensabili? La raccomandazione principale è quella di lavarsi di frequente le mani con acqua e sapone. quando acqua e sapone non sono disponibili allora i gel igienizzanti per le mani a base d'alcol possono essere utili. Ma attenzione, perché non sono tutti uguali. Solo quelli con una certa percentuale di alcol hanno davvero un'efficacia contro virus, batteri e funghi. Ecco quali sono quelli che funzionano davvero.
Per quanto riguarda le superfici e gli oggetti, va detto che secondo alcuni studi il coronavirus può resistere su di essi fino a 9 giorni prima di diventare inattivo. Anche se non ci sono prove che possa trasmettersi attraverso gli oggetti contaminati, il consiglio quindi di buon senso è di non portarselo a casa: conviene ad esempio appoggiare gli zaini e le borse a terra e non sul tavolo, togliersi scarpe e guanti appena si entra in casa, lavarsi le mani. In questi casi vale la pena intensificare l’igiene delle superfici che hanno un uso promiscuo o sono luoghi di passaggio interno-esterno (come maniglie, corrimano, pulsantiere, pavimenti…). Per farlo si può usare alcol (quello nella classica confezione rosa) o candeggina “non delicata” pura (non diluita), magari con uno panno usa e getta (come aggiuntiva precauzione).
Monete e banconote possono essere potenzialmente contaminate con SARS-CoV-2 attraverso le goccioline respiratorie di una persona infettiva. Studi in vitro suggeriscono che SARS-CoV-2 è più stabile su superfici lisce ed è stato recuperato come virus infettivo da banconote e acciaio inossidabile (monete) anche dopo 2 e 4 giorni di inoculazione, rispettivamente. Come con le maniglie e i corrimani nei luoghi pubblici, monete e banconote vengono toccate da un gran numero di persone e questo fa aumentare il timore. Trattandosi di dati che provengono da studi in vitro, valgono le considerazioni già espresse al punto E’ possibile essere contagiati dal virus toccando superfici e oggetti contaminati? ossia che non sono generalizzabili alla vita reale.
Tuttavia, vista l’ampia diffusione del virus sarebbe sbagliato ignorarli, pertanto in mancanza di prove che permettano di confermare o escludere la trasmissione di SARS-CoV-2 tramite monete o banconote, il CDC europeo (l’organismo di controllo e prevenzione delle malattie) invita alla prudenza e raccomanda di non toccare il viso, gli occhi e la bocca dopo aver maneggiato banconote e monete e di lavarsi subito le mani con acqua e sapone o di disinfettarle con soluzioni a base di alcol.
In alternativa, per ridurre al minimo il contatto con il contante si potrebbero utilizzare i pagamenti digitali, come App per smartphone o carte contactless.
In primo luogo, attraverso l’inalazione di goccioline di saliva tra contatti ravvicinati, ma non solo, visto che le goccioline possono essere veicolate anche a distanze maggiori. Questo rischio c’è sia per le attività all’aperto che per quelle al chiuso. Se pensiamo a sport come calcio, basket, karate… che richiedono momenti di contatto ravvicinato ripetuti e tra più persone, c’è il rischio di contagiare più persone. Attraverso inalazione di goccioline più piccole (aerosol) che permangono nell’aria per un periodo di tempo. Se pensiamo che generalmente ci si allena al chiuso, insieme a più persone, per tempi abbastanza lunghi, a volte in ambienti con scarsa ventilazione (es palestre scolastiche), questo rischio non può essere sottovalutato. E coinvolge non solo le sale in cui ci si allena ma anche gli spogliatoi e bagni condivisi da più persone, motivo per cui anche le attività che si svolgono all’aperto non sono esenti da rischio. In ultimo, vi è il rischio derivante dal contatto con attrezzi o tappetini contaminati da goccioline infette e portando le mani alla bocca, naso e occhi. Sebbene si tratti di un rischio considerato raro, se pensiamo alle sale attrezzi dove la gente ha un’intensa attività respiratoria e passa da una attrezzatura all’altra in tempi brevi, questo rischio non si può escludere.
In generale le attività ad alta intensità o che richiedono un alto livello di sforzo, in particolare quando al chiuso, presentano un livello di rischio più elevato di diffondere COVID-19 rispetto alle attività a bassa intensità. Queste attività sono considerate più sicure se svolte all'aperto.
Mantenere un adeguato distanziamento fisico superiore ai 2 metri, sanificare gli ambienti e gli attrezzi usati, igienizzarsi le mani dopo aver toccato attrezzi, garantire un continuo ricambio di aria e, dove possibile, l’uso delle mascherine sono requisiti fondamentali per ridurre il rischio di COVID negli ambienti sportivi. In tempi di COVID, meglio preferire allenamenti in solitaria e che si possono svolgere all’aperto.
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